5 dicembre 2014

NUOVO CORSO DI TEATRO.

LUGLIO 2016

La caduta
(Bababadalkarakmennydorkamminarronncaammbrontonnerronntuonnthunntrovarrhounaaskaatoohoohordenentornah!) di un già walstretto oldparr viene riconta presto a letto e più tardi nella vita…

(James Joyce, Finnegans Wake H.C.E., Mondadori, Milano, 1982, traduzione di Luigi Schenoni, p. 3)

Che in inglese, cioè secondo l’originaria scrittura di James Joyce, invece, suona così:

The fall
(bababadalgharaghtakamminarronnkonnbronntonnerronntuonthunntrovarrhounawnskawntoohoordenenthurnuk!) of a once wallstrait oldparr is retaled early in bed and later on life…
(James Joyce, Finnegans  Wake H.C.E., op. cit., p. 2).

Alcune osservazioni rispetto al binomio teatro/balbuzie.

1. Il fatto che durante la rappresentazione teatrale il balbuziente abbia, generalmente, un eloquio fluido e scorrevole è solo il punto di partenza, e non di arrivo. E’ il dato da cui si è partiti, per una riflessione sulla balbuzie, in quanto fenomeno piuttosto singolare della psicologia del linguaggio. E le nostre lezioni di teatro sono, dal punto di vista della balbuzie, un momento di ricerca sul campo, una ricerca sul rapporto che intercorre tra: 
a)  linguaggio e psicologia,  e tra
b) consapevolezza/conoscenza tecnica dello strumento linguistico da una parte, e propria libertà espressivo/comunicativa. Una libertà, questa, da intendersi come autorizzazione che la Persona si dà per voler esprimere il proprio mondo, intellettuale ed emozionale. 

2. Il teatro, e le sue lezioni, diventano quindi un luogo e uno strumento: 
a) luogo di incontro, per lavorare sul proprio linguaggio e sul linguaggio del proprio gruppo. Con la disponibilità, a priori, a mettersi in gioco con le proprie difficoltà, ansie, timori e gli oggettivi problemi di linguaggio, quali balbuzie, tachilalia, uso della voce ecc.  In questo luogo di incontro, i punti di debolezza diventano, o possono diventare punti di forza. Perché vengono  affrontati ed elaborati. Un’azione, questa, che genera un sapere, quindi un potere sulla propria “funzione linguaggio”.
b) il teatro è strumento, perché se ne usano le peculiarità per una progressiva e militante scoperta del proprio potenziale linguistico-espressivo, del potenziale respiratorio, del potenziale recitativo. E’ pensabile, allora, che si poss arrivare a una nuova percezione del proprio parlato: e allontanarsi, quindi, dagli stereotipi del sé balbuziente. La propria creatività, anche tecnica e non solo comunicativa, fa scoprire, e usare, la propria libertà espressiva; consente di uscire dalle gabbie costrittive, costruite su una visione limitata e ansiosa del proprio linguaggio; può portare a una interiorizzazione di queste nuove capacità e visioni di sé. 
Che è quel che più ci preme, questa interiorizzzione: perché se nella stanza terapeutica o nel teatro, il balbuziente parla bene e con relativa facilità, il problema vero è la sua capacità di portare in sé e con sé, e fuori da quei luoghi deputati, non solo quella capacità e attitudine, ma anche la nuova percezione del proprio parlato e della sua fluidità.
E non vi è alcun dubbio che gli esercizi che si fanno in sede teatrale sul linguaggio abbiano la forte capacità di scuotere le “certezze della propria balbuzie”, per aprire il varco alla ricerca di nuove certezze.

Quindi, il teatro per la cura della balbuzie va molto oltre i propri confini spazio-temporali: se recitando non si balbetta, allora questa verità va usata e non lasciata lì come se fosse una semplice curiosità della psiche umana. In effetti, rivela quanto la creatività ci possa dare in termini terapeutici, se la assumiamo come cardine espressivo della Persona. E la Persona, allora, vorrà usarla anche fuori dai luoghi degli esercizi teatrali.

Per questo ho messo in epigrafe la citazione di Joyce: giocare con il linguaggio,  usarlo in funzione della propria creatività, per potere e sapere svincolarsi dalle costrizioni, reali e soggettive, che il linguaggio ci impone.
Il linguaggio presenta, e ce li offre quotidianamente, i propri limiti rispetto al potenziale umano della comunicazione. Ma ne è anche strumento principe, e come tale è un’inesauribile miniera di ricchezze: uno scrittore spagnolo, vissuto tra il XIX e il XX secolo, Ramòn del Valle-Inclàn, ha scritto: Sventurato chi non ha il coraggio di accostare due parole che non erano mai state unite.



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