24 febbraio 2015

LA POESIA SALVA LE PAROLE.

LUGLIO 2016.

Una serie di lezioni all'interno del nostro
Corso di Teatro per la Cura della Balbuzie e delle difficoltà espressive,
organizzato dal MOMAMAMO TEATRO.


I poeti lavorano di notte 

I poeti lavorano di notte
quando il tempo non urge su di loro,         
quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio delle ore.

I poeti lavorano nel buio
come falchi notturni od usignoli
dal dolcissimo canto
e temono di offendere Iddio.

Ma i poeti, nel loro silenzio
fanno ben più rumore
di una dorata cupola di stelle.

(da "Destinati a morire")


Stefano Raimondi ci legge questa poesia di Alda Merini.
Con questi versi dà il via alla sua terza lezione del Seminario “La Poesia salva la Parola”, organizzato dal MOMAMAMO TEATRO, all’interno del Corso di Teatro per la Cura della balbuzie e delle difficoltà espressive.
Per noi, è importante assistere alle letture di un poeta, alla sua dizione, alle sue pause, al suo tono di voce. Anche alle sue emozioni. Di lettore e di poeta.
Questa lettura è anche il mezzo, il pretesto, il prijom per dirla col linguaggio dei registi russi dei primi del Novecento, l’introduzione: per parlarci dell’importanza della parola nella poesia. Non a caso abbiamo dedicato a questo tema, poesia e parola, tre nostre giornate.
Dice Raimondi:
1.    La poesia leva, più che mettere, le parole. Quindi, una capacità di sintesi, totalmente funzionale all’espressività. Ma anche un omaggio al lettore (ascoltatore) e alla sua libertà interpretativa, affinché questi se ne impossessi, la faccia propria e la viva secondo la propria interiorità. Qui sta il fondamento della comunicazione.
2.     Le parole hanno una storia. La loro storia personale, ma anche la storia di quel poeta, in quel particolare momento. Le parole hanno la loro storia e sono la nostra storia, di ognuno di noi.
3.     Le parole hanno un tu.
4.     La parola deve essere responsabile e rigorosa.
5.     Con la parola, ci esponiamo. E non possiamo farne a meno


E la lettura?
La lettura è un movimento di uscita, che deve anche tornare indietro. Grazie a chi ci ascolta. La lettura è parte della nostra vita. L’arte della lettura è un gesto di trasformazione: lèggere non è mai atto puro, c’è sempre qualcosa di noi, del lettore. La lettura è rivelazione di sé. La lettura maneggia e manipola il testo. La consapevolezza di questo percorso intimo del lettore, durante l’atto del leggere, fa della lettura un atto del sé, che, quindi, dice, manifesta qualcosa di noi.
Quindi la lettura è un atto di relazione.


Gli esercizi di lettura nella cura della balbuzie hanno importanza fondamentale, perché consentono al lettore di stabilire con il proprio “parlato” un rapporto di conoscenza, quindi di dominio. Un dominio e una sensazione di potere sul linguaggio che, poi, si trasferirà anche sulla gestione della conversazione spontanea, del dialogo con il tu;  per stabilire sincronia tra fonazione e respirazione; per percepire e conquistare, nell’uso della propria parola, la capacità di “tenere”, dominare, la trasformazione del pensiero pensato in pensiero parlato, quale è l’atto del comunicare: un percorso, un processo che devono tener conto dei tempi imposti dalla fisiologia del linguaggio.
La lettura, così concepita, porta il lettore alla consapevolezza del proprio strumento linguistico e di come usarlo, giungendo a una demistificazione della balbuzie. Il linguaggio si disvela al parlante in tutte le proprie potenzialità. Parlare diventa, allora, un gesto di ricchezza e creatività e non più un ansiogeno atto cui molto malvolentieri ci si deve sottoporre. Si impara a giocare e a divertirsi con il proprio linguaggio.
La lettura della poesia possiede la capacità di accentuare la creatività del lettore/interprete. La poesia è una composizione che deve essere rispettata dal lettore. La sua lettura riempie anche lo spazio bianco del foglio, che è spazio bianco della poesia. Il lettore deve andare a capo secondo i versi, deve rispettare l’a capo. La lettura resterà pura lettura: la parafrasi è la morte della poesia. La parola deve essere sostenuta, data, offerta, letta con lentezza. Ogni verso della poesia è il peso del romanzo, lì dentro contenuto. Non dobbiamo correre. E dobbiamo far sentire le parole della poesia. Anche per dare al lettore il tempo di capire.
E' stata posta una domanda a tutti i presenti, che dovevano rispondere poi con un breve scritto: cos'è la parola?.
Trascrivo alcune risposte dei nostri partecipanti al corso.

1. La parola è l'avverarsi del pensiero: il potenziale si realizza in un percorso senza fine, che è la ricerca di sé con sé e di sé con gli altri. La parola libera dai vincoli, nel momento stesso in cui ci crea il vincolo del linguaggio. La gabbia apre le sbarre per farci scoprire le gabbie, altre, da cui liberarci.

2. la parola è un fluido che permette di porre in relazione le persone. E' ciò che esprime la nostra musicalità e quella dell'altro.

3. La parola è un ponte che comunica delle idee da una a più persone.

4. la parola è una modalità espressiva di sentimenti, emozioni o anche solo informazioni.

5. Con la parola comunichiamo e, come degli artisti, ceselliamo il nostro messaggio per esprimere qualcosa di noi.

Ecco, qui di séguito, alcuni appunti presi durante la lezione di Stefano Raimondi La Poesia salva la Parola, tenuta presso lo Studio De Pas.

Le Parole pro-fferite creano l'incontro con tutto ciò che le parole hanno di potenziale. Le parole vengono scelte e trascelte. La parola poetica si carica di esperienze: io non vedo differenza tra la poesia e la stretta di mano (Paul Celan), perché la parola va incontro all'altro. E se noi prestiamo cura alle parole, le parole si cureranno di noi. La parola diventa, allora, un rimpatrio, perché ci fa tornare a casa, ci permette, cioè di essere in noi, per gli altri, e quindi riconosciuti, cioè conosciuto anche da me stesso.La parola è un'aderenza, una pelle.
Le parole si  -e ci-  prendono per mano, noi vogliamo conoscere le parole che ci danno sostanza, e ci fanno "tornare a casa", consentendoci una sempre maggiore conoscenza di noi stessi.
Le parole vanno protette e la parola va modellata.

Viene quindi posto, ai presenti, questo metaforico quesito:
Se uno Stato dittatoriale volesse bruciare tutti i dizionari, quale parola salvereste? Una sola parola da salvare: la vostra, quella con cui pensate o sperate di poter sconfiggere quella dittatura. Quale parola?
Pensateci anche Voi, che state ora leggendo. Quale parola?

Stefano Raimondi ci ha raccontato, poi, queste parole scritte, in prosa, da Antonio Porta: io scrivo poesie per vendicare tutti i bambini.

La parola si fa traccia: secondo il filosofo francese Emanuel Lévinas, la parola è una traccia, cioè un reperto, una possibilità di un ritrovamento. Mentre il tempo diventa il passato che passa, la parola rimane solida, sempre presente nel tempo: una traccia di noi stessi. A questo si aggiunge, nella poesia, che la parola, quindi la parola poetica, è carica di un’esperienza: si carica dell’esperienza del dire, dell’eaperienza del linguaggio. La poesia crea un deposito di pensiero e di sensazioni in chi la sente, in chi l’ascolta.

Antonio Porta: Scrivo poesie per vendicare tutti i bambini. Le persone presenti sono invitate a commentare questa “poesia in prosa” del poeta contemporaneo A. Porta.
Riporto alcuni interventi:
  1. Mi ricorda il Piccolo Principe.
  2. La poesia e le vicende umane.
  3. La poesia imbriglia il bambino. Ed è giusto che lo faccia. Ma, nello stesso tempo, gli toglie la libertà e la spontaneità comunicativa.
  4. La poesia libera tutto.
  5. Ai bambini è tolta la libertà da parte del potere del linguaggio, che risiede nel mondo adulto.



IL MESSAGGIO IN UNA BOTTIGLIA


Osip Mandel'štam
[da: “Dell'interlocutore” in La quarta prosa,1928]

“Ognuno ha i propri amici.
Perché un poeta non si dovrebbe rivolgere ai suoi, a persone a lui vicine per natura?
Il navigatore in difficoltà getta nelle acque dell'oceano una bottiglia sigillata con il proprio nome e il racconto della propria sventura.

Molti anni dopo, vagando per le dune, io ritrovo nella sabbia questa bottiglia, leggo la lettera, conosco la data dell'evento e le ultime volontà dell'annegato.
Ho il diritto di farlo.
Non ho aperto una lettera altrui.
Il foglio sigillato era indirizzato a chi avrebbe trovato la bottiglia. L'ho trovata io.
Dunque sono io il misterioso destinatario!
La lettera non è indirizzata a nessuno in particolare. Ciò non di meno essa ha un destinatario: colui che per caso noterà la poesia nella sabbia […]
Quando parliamo/scriviamo noi cerchiamo il viso dell'interlocutore.

Paul Celan
[da: Allocuzione Premio Brema- 1960]

La poesia, essendo non per nulla una manifestazione linguistica, e quindi dialogo per natura, può essere un messaggio nella bottiglia, gettato nel mare nella convinzione – certo non sempre sopportata da grande speranza – che esso possa un qualche giorno e da qualche parte essere sospinto a una spiaggia, alla spiaggia del cuore, magari.

Le poesie sono anche, in questo senso, in cammino: esse hanno una meta.
Quale?
Qualcosa di accessibile, di acquisibile, forse un “TU” o una realtà, aperti al dialogo.”




5 dicembre 2014

NUOVO CORSO DI TEATRO.

LUGLIO 2016

La caduta
(Bababadalkarakmennydorkamminarronncaammbrontonnerronntuonnthunntrovarrhounaaskaatoohoohordenentornah!) di un già walstretto oldparr viene riconta presto a letto e più tardi nella vita…

(James Joyce, Finnegans Wake H.C.E., Mondadori, Milano, 1982, traduzione di Luigi Schenoni, p. 3)

Che in inglese, cioè secondo l’originaria scrittura di James Joyce, invece, suona così:

The fall
(bababadalgharaghtakamminarronnkonnbronntonnerronntuonthunntrovarrhounawnskawntoohoordenenthurnuk!) of a once wallstrait oldparr is retaled early in bed and later on life…
(James Joyce, Finnegans  Wake H.C.E., op. cit., p. 2).

Alcune osservazioni rispetto al binomio teatro/balbuzie.

1. Il fatto che durante la rappresentazione teatrale il balbuziente abbia, generalmente, un eloquio fluido e scorrevole è solo il punto di partenza, e non di arrivo. E’ il dato da cui si è partiti, per una riflessione sulla balbuzie, in quanto fenomeno piuttosto singolare della psicologia del linguaggio. E le nostre lezioni di teatro sono, dal punto di vista della balbuzie, un momento di ricerca sul campo, una ricerca sul rapporto che intercorre tra: 
a)  linguaggio e psicologia,  e tra
b) consapevolezza/conoscenza tecnica dello strumento linguistico da una parte, e propria libertà espressivo/comunicativa. Una libertà, questa, da intendersi come autorizzazione che la Persona si dà per voler esprimere il proprio mondo, intellettuale ed emozionale. 

2. Il teatro, e le sue lezioni, diventano quindi un luogo e uno strumento: 
a) luogo di incontro, per lavorare sul proprio linguaggio e sul linguaggio del proprio gruppo. Con la disponibilità, a priori, a mettersi in gioco con le proprie difficoltà, ansie, timori e gli oggettivi problemi di linguaggio, quali balbuzie, tachilalia, uso della voce ecc.  In questo luogo di incontro, i punti di debolezza diventano, o possono diventare punti di forza. Perché vengono  affrontati ed elaborati. Un’azione, questa, che genera un sapere, quindi un potere sulla propria “funzione linguaggio”.
b) il teatro è strumento, perché se ne usano le peculiarità per una progressiva e militante scoperta del proprio potenziale linguistico-espressivo, del potenziale respiratorio, del potenziale recitativo. E’ pensabile, allora, che si poss arrivare a una nuova percezione del proprio parlato: e allontanarsi, quindi, dagli stereotipi del sé balbuziente. La propria creatività, anche tecnica e non solo comunicativa, fa scoprire, e usare, la propria libertà espressiva; consente di uscire dalle gabbie costrittive, costruite su una visione limitata e ansiosa del proprio linguaggio; può portare a una interiorizzazione di queste nuove capacità e visioni di sé. 
Che è quel che più ci preme, questa interiorizzzione: perché se nella stanza terapeutica o nel teatro, il balbuziente parla bene e con relativa facilità, il problema vero è la sua capacità di portare in sé e con sé, e fuori da quei luoghi deputati, non solo quella capacità e attitudine, ma anche la nuova percezione del proprio parlato e della sua fluidità.
E non vi è alcun dubbio che gli esercizi che si fanno in sede teatrale sul linguaggio abbiano la forte capacità di scuotere le “certezze della propria balbuzie”, per aprire il varco alla ricerca di nuove certezze.

Quindi, il teatro per la cura della balbuzie va molto oltre i propri confini spazio-temporali: se recitando non si balbetta, allora questa verità va usata e non lasciata lì come se fosse una semplice curiosità della psiche umana. In effetti, rivela quanto la creatività ci possa dare in termini terapeutici, se la assumiamo come cardine espressivo della Persona. E la Persona, allora, vorrà usarla anche fuori dai luoghi degli esercizi teatrali.

Per questo ho messo in epigrafe la citazione di Joyce: giocare con il linguaggio,  usarlo in funzione della propria creatività, per potere e sapere svincolarsi dalle costrizioni, reali e soggettive, che il linguaggio ci impone.
Il linguaggio presenta, e ce li offre quotidianamente, i propri limiti rispetto al potenziale umano della comunicazione. Ma ne è anche strumento principe, e come tale è un’inesauribile miniera di ricchezze: uno scrittore spagnolo, vissuto tra il XIX e il XX secolo, Ramòn del Valle-Inclàn, ha scritto: Sventurato chi non ha il coraggio di accostare due parole che non erano mai state unite.



11 luglio 2014

LA REPUBBLICA di Domenica 6 luglio 2014: intervista a Morando Morandini

LA REPUBBLICA di Domenica 6 luglio 2014 ha pubblicato a pag. 50/51 un’intervista che il critico cinematografico MORANDO MORANDINI ha rilasciato ad Antonio Gnoli.

Ho conosciuto personalmente e casualmente Morandini, molti anni fa (grazie ad alcuni amici), e più volte ho avuto la possibilità di ascoltarne presentazioni e critiche cinematografiche, durante vari festival e/o rassegne. In particolare presso il non-più-in-uso cinema di Via Caminadella, qui a Milano.  Ne ho un ricordo molto bello, quanto vivido. Mi ha sempre colpito l’umanità di questo signore, l’uso delle parole, la sua capacità di portare l’ascoltatore dentro la storia del film di cui ci parlava. In particolare, ci fu una serata dedicata a Cinema e Shoah, proprio in Via Caminadella. Morandini ci parlava di uno dei film della rassegna, e del suo contesto. Bene, tutti in sala, abbiamo potuto vedere questo intellettuale cedere alle lacrime, mentre ci parlava di quel film e della vicenda lì narrata. Di cui, purtroppo, ora non ricordo il titolo. Sono passati molti anni. Ma non si cancellerà mai l’immagine di questo Morandini, che insegna al pubblico che cosa significa la passione per il proprio lavoro, dentro cui, lui, e per tutta la vita, ha immesso la sua passione per l’umanità.

Tra pochi giorni, Morandini compie 90 anni. E l’intervista del 6 luglio vuole festeggiare questo Maestro. Il quale, sollecitato dalle domande del giornalista racconta di sé.
A un certo punto, parla del padre:

Era un entusiasta militarista. Entrò nella milizia fascista. Ci perseguitava con le sue frasi, i suoi atteggiamenti viriloidi. Ho dovuto sopportarlo per anni. In compenso ho adorato mia madre. Morì nel 1942 e per me si aprì un periodo complicato.

Quanto complicato?

Abbastanza da mettermi di malumore. Si accentuò un difetto che mi portavo da bambino: la balbuzie. Ancora oggi, sente, come a volte mi impunto su delle parole.

E come l’ha vissuta all’inizio?

Mi pareva un limite, come avere una gamba più corta. Però poi mi sono accorto che quel “limite” andava abbastanza d’accordo con il mio carattere, che tendeva a farmi stare sempre un po’ in disparte. Diventai così una specie di balbuziente felice e solitario.

Si è mai chiesto da dove nascesse quel difetto?

Emotività, vergogna, paura, rabbia. Chi lo sa? Per risolverlo ho provato a imparare a respirare. Ma come vede ancora balbetto. Penso sia un modo per farsi rubare le parole.

Chi le ruba?

Ogni tanto penso a un piccolo demone malignetto. Un guastatore della lingua che piccona le sillabe, prosciuga le vocali, svolazza sulle piccole frasi creando scompiglio.

E’ la sua ossessione?

I demoni possono diventare la nostra ossessione

Ha letto Dostoevskij?

L’ho letto. Mirabile. Profondo. Ma di una una profondità irraggiungibile. Quasi paralizzante.

In che senso?

Non è una novità dire che Dostoevskij aveva guardato nel baratro del suo mondo. Cogliendone tutto l’orrore, l’assurdità, il pericolo. Io, giovane lettore, cosa avrei dovuto fare a quel punto? Alla fine provavo ammirazione per la sua lucidità ma nessuna empatia. Nessuna condivisione. Se si afferma che Dio è morto e che qualunque cosa è ammessa, il mio primo pensiero non va al nichilismo feroce, ma allo sdoganamento del consumismo che in questi anni, non ora che stringiamo la cinghia, ci ha afflitti e ridotti a espressioni dell’onirico.

L’intervista prosegue, ed è interessante, per chi lo voglia, l’intera lettura: un breve e rapido sguardo sulla vita di quest’uomo, il cui nome è legato, tra l’altro, al famodo Dizionario del Cinema, da 15 anni pubblicato, ogni anno, da Zanichelli, il Morandini appunto.


Ho voluto inserire questa parte dell’intervista, dedicata alla balbuzie. Morandini era, è personaggio pubblico. Anche per le sue numerose presentazioni e conferenze tenute davanti ai folti pubblici, che andavano al cinema a vedere un film, ma soprattutto andavano a sentire il Morandini che parlava.

4 giugno 2014

"I balbuzienti" Racconto di Giuseppe Novellino

Attraverso la piccola grata sentiva un odore acre di sudore e di cipolla. Il frate puzzava, ma era pur sempre un ministro di Dio e aveva l’autorità di rimettergli i peccati. Gli avevano detto che lo avrebbe trovato nel confessionale, dove si ficcava tutti i giorni, verso quell’ora, per sfuggire alla canicola.
     - Perdona, o Padre, perché ho peccato – disse Emile Landry in uno spagnolo più che passabile. Lo aveva imparato quando era a servizio di Romaldo Gonzales, laggiù a Reynosa. Ma erano passati più di dieci anni. Adesso ne aveva quaranta e cominciavano a pesargli, come gli pesava quell’animaccia nera che si ritrovava. Ne aveva viste e fatte di tutti i colori, in pace e in guerra. Ne aveva accoppata di gente, la maggior parte yenkie in divisa blu. Era tenuto ad ammazzarli, come pure i comanche e i tonkawa. Ma di qualcosa era meglio pentirsi, altrimenti sarebbe andato dritto all’inferno.
     - Apri la tua anima, figliolo – disse il frate.
     Emile Landry fece due colpetti di tosse e cominciò.

     Il sole spietato delle prime ore pomeridiane faceva riverberare i bianchi intonaci delle casupole.
     Nel sagrato, un giovane con sombrero e lunga camicia di lino stava seduto accanto a un anziano con la faccia rugosa.
     - Che dici di quel gringo che è entrato in chiesa? – domandò Pedro al sacrestano.
     - Forse vuole parlare con padre Lorenzo – rispose il vecchio.
     - Può darsi – tra gringos magari si conoscono.
     - Ma c’è una bella differenza tra i due.
     - Già – ammise il giovane. – Il nuovo arrivato mi sembra un pistolero, mentre il nostro è un sant’uomo.
     Non si vedeva nessuno, a quell’ora, nella principale via di Sabinal. Il villaggio messicano viveva la sua lunga ora di siesta.

     - Ho ucciso un uomo… che mi supplicava di non sparargli. – Landry fece una lunga pausa, come per saggiare la reazione del confessore. Continuò: - Diceva che si trattava di un errore, che non era lui la persona che cercavo. Ma ho premuto il grilletto. Portava su di sé i segni del riconoscimento. Poi il dubbio si radicò nella mia mente.
     - Che cosa aveva fatto? – chiese il frate con voce spenta.
     - Ero un bambino di nove anni e ho visto tutto. Un tale, balbuziente e con una specie di voglia sulla fronte, uccise mio padre, poi violentò e strangolò mia madre. Scappai nella boscaglia, piansi a lungo e con il passare del tempo giurai di vendicarli.
     - Dove avvenne il fattaccio? – domandò il frate.
     Landry si rese conto che l’odore di cipolla veniva dall’alito del religioso. Dalle parti di San Angelo, in Texas. La mia famiglia era originaria di New Orleans e si era sistemata laggiù, su un bel pezzo di terra strappato ai comanche. - Fece un’altra pausa, mentre dall’altra parte della grata si sentiva una respirazione profonda. – Crebbi e partecipai alla guerra. Mi battei per la causa del Sud, naturalmente. Ma vivevo sempre con quel pensiero in testa. Non seppi più nulla di quell’uomo, fino al mese scorso. Lo incontrai a Roswell, nel New Mexico. Giocava a pocker in un locale di una certa pretesa. Quando mi fui seduto al tavolo, non ebbi alcun dubbio. Il suo difetto di linguaggio era evidente, ma soprattutto c’era quel segno inequivocabile sulla sua fronte. Giocai per quasi due ore. Nel cuore della notte mi alzai dal tavolo e me ne andai prima di lui. Lo aspettai fuori. Era un po’ alticcio. Non portava la pistola, ma poteva tenere una piccola arma in una tasca. Lo presi per il bavero e lo spinsi in un vialetto tra due case. Gli dissi chi ero, ma quello cominciò a difendersi, dicendo che non sapeva di che cosa stavo parlando, che all’epoca del fattaccio lui era uno sbarbatello, stava a San Francisco e si imbarcava ogni tanto per la caccia alle balene. Disse tanto e tanto, con quel suo modo di parlare a singhiozzi, in tono supplichevole. La sua voce mi irritava. Così, a un certo punto, gli piantai una pallottola proprio su quella macchia che portava in fronte… e lo feci tacere per sempre.
     Non si udiva più il respiro del confessore.
     - Da quel momento sono stato tormentato dal dubbio – riprese Emile Landry. – E poi il dubbio si è trasformato in tormento. Sono fuggito in Messico e mi sono messo in cerca di qualcuno che mi sollevasse dal senso di colpa. Sono cattolico. I miei… lo erano. Mi hanno fatto fare la prima comunione, ma da allora non sono più andato in chiesa. Fino ad oggi…
     Tacque e solo dopo un bel momento domandò:
     - Ci siete ancora, Padre?
     - Sono sempre al mio posto – sussurrò il frate. Poi: - Ego te absolvo…

     - Ecco che esce – fece il giovane rivolto al sacrestano.
     - Se è andato a confessarsi, deve aver vuotato un sacco assai pesante. Sarà un pistolero. Non vedi come tiene la fondina allacciata alla coscia? Forse è andato da padre Lorenzo per chiedere informazioni.
     - Può darsi. Tanti cacciatori di taglie e tanti rangers passano il confine per venire ad acciuffare i loro compatrioti balordi. - Sputò. – Ma anche tanti messicani che vanno lassù a combinarne di tutti i colori.
     Il gringo intanto si era avvicinato al suo cavallo. Ficcò tra le labbra un mozzicone di sigaro e lo accese.
     Sulla porta della chiesa comparve padre Lorenzo. Scese i tre gradini e si avviò con passo un po’ incerto verso l’uomo che stava montando in groppa all’animale.
     - S…scu…sami, fra…fra…fratello. – disse. - De…devo dirti u…una cc…ccosa.
     L’altro tolse il piede dalla staffa e si girò di scatto.
     Il frate si arrestò. Entrambi si guardarono negli occhi.
     - Il modo di parlare di padre Lorenzo mi ha sempre sconcertato – disse Pedro al sacrestano.
     - Hai ragione, ragazzo. Quando predica o dice cose nella sua veste di sacerdote, parla come un angelo. In altri momenti è un tartaglione inascoltabile.
     - È un vero mistero – convenne il giovane con il sombrero.
     - Io s…sono l’u…l’u…cccisore dei tu…tu… tuoi ggg…genitori.  E spinse indietro il cappuccio.
     Lo straniero era impietrito. Il mezzo sigaro penzolava da un angolo della bocca.
     - Se… ssei ve…ve…ramente in ppp…pace con D…dio, pu…puoi tendermi la…la ma…mano. A…altrimenti e…e…straete la pistola e ff…fate quello che dovete f…fare.
     Silenzio. Solo il frinire lontano di una cicala.
     Lo straniero avvicinò la mano alla pistola. Il suo sembrava un gesto meccanico che non poteva controllare. Estrasse l’arma e tese il braccio, puntandola alla testa del frate.
     Quello allargò le sue, come Cristo in croce, e rimase immobile.
     Trascorse un minuto che parve un’eternità. Poi un frullo d’ali: due corvi si staccarono dal tetto di una casupola.
     E ci fu lo sparo.
     La pallottola centrò la fronte del religioso, proprio sulla voglia rossiccia a forma di pera che risaltava al sole.
     Pedro e il sacrestano si alzarono in piedi.
     Il gringo si rivolse a loro:
     - D…dio mm…mi ha pe…pe…rdonato. Io n…no.
     - Un altro balbuziente – disse Pedro, spalancando la bocca per la sorpresa.

     L’uomo montò a cavallo e se ne andò al piccolo trotto.

L'AUTORE SI PRESENTA:
Sono nato a Sondrio nel 1949, dove vivo con mia moglie Aurelia. Ho tre figli maschi che hanno da poco conquistato la loro indipendenza. Sono in pensione da sei anni e ho le giornate piene di cose da fare, di persone con cui relazionare, di libri da leggere, di fogli da riempire con la scrittura, dell’orto da coltivare. E con mia moglie porto avanti da molti anni la faticosa ma bella attività di aiutare persone con disagio. Partecipo al movimento Pax Christi e sono modestamente impegnato nella costruzione della Pace, nella salvaguardia del Creato, nella difesa dei diritti umani e della giustizia.  Un paio di volte all’anno vado a Firenze, presso la Casa per la Pace (è una bella villa cinquecentesca sulle colline di Impruneta) dove ho prestato regolare attività di volontariato dal 2007 al 2011.
      È una vita piena, la mia, senz’altro. Ma come tutte le vite ha avuto i suoi alti e bassi, i suoi momenti felici e le sue difficoltà. Per fortuna, con una compagna dal carattere positivo, sono sempre riuscito a superare i periodi difficili.
       Non sono il tipo che oggi chiamano “solare”. Odio questo termine. Sono tutt’altro. Mi reputo un tormentato costruttivo, un pessimista con l’idea fissa della salvezza di questa umanità che forse è arrivata a un bivio. Insomma sono uno che spera, ardentemente, senza farsi facili illusioni.
       Questo modo di essere mi ha portato a realizzare qualcosa nella vita: una famiglia e una carriera di insegnante.
      Fin da ragazzino ero attratto da questa professione e sognavo di occupare una cattedra. Ma qualcosa si opponeva al mio desiderio. Fino all’età di 24 anni sono stato affetto da una forma di balbuzie. Inoltre avevo il terrore di parlare davanti a un pubblico e mi inibiva l’idea di dialogare alla pari con persone che ritenevo superiori.
      Nel settembre del 1973, ci fu un evento che cambiò radicalmente la mia vita e mi aprì al rapporto con gli altri. Partecipai a un corso psicofonico tenuto a Milano dal dott. Roberto De Pas. Eliminai completamente la balbuzie e l’ansia nel parlare. Dico sul serio. La cosa non avvenne per un colpo di fortuna o per l’uso di una bacchetta magica. Assimilai piuttosto l’intima filosofia del corso, riuscii a modificare il mio atteggiamento interiore e trovai la chiave, davvero sicura, per non incepparmi più nell’esprimere parole.
      Dopo questo fatto, la possibilità di insegnare mi si spalancò come una porta (anzi, un portone) e cominciai la mia carriera. Penso di averla costruita con un certo successo, essendo stati i feedback decisamente positivi. Mi reputo sempre un insegnante e ancora oggi mi capita di impiegare questa mia professionalità in varie circostanze.
     Una delle mie grandi passioni, che coltivo tutt’oggi, è quella dello scrivere.
     Scrivo da una vita. Dal 1973 ho pubblicato articoli e racconti su giornali locali come Centro Valle, Il Corriere della Valtellina e La Provincia di Sondrio.
    Un giorno mi misi a inventare storie per i miei tre bambini. Le scrivevo su un quadernetto e poi le leggevo davanti a un registratore. Ci mettevo pure dei rumori e delle musiche in sottofondo. Quando mio cognato, durante un viaggio in camper, ebbe ascoltato una di queste audiocassette, che il suo bambino continuava a infilare nell’apposito pertugio dell’autoradio, mi disse: - Lo sai, Giuseppe, che nei libri comprati a Francesco (suo figlio e, quindi, mio nipote) ho letto di peggio?
    Mi si accese una lampadina. Riscrissi le storie e le inviai (per scherzo) alla Casa Editrice La Scuoladi Brescia. Quindici giorni dopo, la redazione mi chiamò per telefono e mi propose l’acquisto dei miei racconti. Uscì quindi, nel 1989, “Bambini,cose e animali”: letture di compimento per la terza elementare. L’anno dopo feci un puntuale bis con altri racconti che vennero raccolti in “Sogni nella città”, libro della stessa collana. Quest’ultimo fu citato (una breve ma significativa presentazione) nella trasmissione “Big”, in onda su RAI-UNO nella fascia pomeridiana. Correva l’anno 1992.
Da allora, l’idea di pubblicare libri non mi sembrò più tanto peregrina.
    Racconto per puro diletto, ma non scarto l’idea di vedere ancora il mio nome su una copertina. Naturalmente prendo le cose un po’ come vengono, con sano realismo. Non sono uno scrittore sprezzante e geloso, polemico contro tutto e tutti; ma non sono nemmeno un cacciatore di gloria ad ogni costo. Conosco i miei limiti, sono convinto di riuscire nella scrittura, e di avere una certa fantasia. Il mio intento è quello di far pensare attraverso il divertimento. Per questo bazzico soprattutto i generi del fantastico.
    Una nuova occasione arrivò nel 2008.
    Mandai un mio romanzo alla Casa Editrice Albatros-Il Filo di Roma.  Mi venne offerto un accordo editoriale che prevedeva il versamento di un contributo. Nel giro di pochi mesi usciva “Dinamite pura”, un racconto mistery, venato di sottile umorismo, ambientato fra i giovani degli anni sessanta e imperniato sulla musica beat.  I lettori mi hanno regalato delle emozioni, mettendosi in contatto con me per dirmi che si erano divertiti ed emozionati tantissimo. Ed è ciò che conta.
   Nel gennaio 2009, spedii una raccolta di racconti alla Edizioni Creativa di Napoli, piccola ma agguerrita casa editrice, assai impegnata, che appartiene all’editoria indipendente. Altro centro. I miei racconti vennero giudicati molto positivamente.
   Nel febbraio 2010 uscì “La Vertigine e l’attesa”. Contiene storie di sapore fantascientifico ambientate in Valtellina, che non hanno nulla del bozzetto e della caratterizzazione di sapore locale. Sono narrazioni a tratti beffarde, comunque coinvolgenti, scomode e scioccanti, specchi della cattiva coscienza di un’umanità sull’orlo dell’abisso.
   Oggi scrivo soprattutto per pubblicazioni nei blog e nei siti letterari. Ho partecipato con successo a svariati concorsi. Miei racconti sono pubblicati anche su antologie cartacee.
   Visto che sono un lettore accanito, recensisco libri di narrativa e di saggistica. Compaiono abbastanza regolarmente su Art-Litteram e PescePirata.
   Che dire di più?
   La mia grande speranza è quella di arrivare (il più tardi possibile) a una fine e di sentirmi, come dice Martin Buber, “sazio di giorni”.

7 novembre 2013

"Il cavallo che si è perso ritrova la strada di casa, solamente indirizzando la sua attenzione alla strada"


“Il cavallo che si è perso ritrova la strada di casa, solamente indirizzando la sua attenzione alla strada”. Milton Erickson, psicoterapeuta americano, padre della contemporanea psicoterapia ipnotica, vedeva nella metafora uno strumento terapeutico privilegiato. E questa, del cavallo che si è perso, è tra le sue più famose.

La metafora non deve essere scalfita, dandone una spiegazione, un disvelamento “logico”: è “magica”. Usata in maniera congrua nel dialogo con il paziente, la metafora porta l’ascoltatore a significati altri rispetto all’enunciato reale, che in quel momento scopre come propri, stimolando in lui una serie di passaggi logico-emozionali, ma soprattutto emozionali, utili -o probabilmente utili- ai suoi percorsi interiori, capaci di portarlo al cambiamento. Rapidi, sintetici, associativi, creativi. Il che gli consente di accedere, senza le teorizzazioni (emisfero cerebrale sinistro) o le interpretazioni proprie o dello specialista, al mondo che sta al di là del razionale, accedere al mondo emozionale e creativo (emisfero cerebrale destro), e quindi anche al proprio potenziale. Grazie a una nuova modalità di “lettura” e “autolettura”

Il potenziale è il nostro mondo “nascosto”: un’energia interiore, che può emergere grazie alle più svariate sollecitazioni che si ricevono.
L’apprendimento scolastico, per esempio, è un processo di incessante e continua realizzazione del potenziale dell’alunno (per ognuno il proprio).
Un altro esempio che ci riguarda più da vicino: la balbuzie, e le sue manifestazioni, convivono con le capacità potenziali della persona a un linguaggio fluido e corretto. Occorre volerle cercare (la motivazione alla terapia), queste potenzialità, oltre che saperle trovare (la terapia). E soprattutto stabilizzarle, tramite una nuova armonia che il parlante riesce a creare, nel rapporto con sé stesso e con il proprio linguaggio, Perché, magari solo episodicamente, ma di fatto, quel potenziale emerge abbastanza spesso nella “giornata linguistica” di un “balbuziente standard”.

La cura della balbuzie vuole rendere stabile, attuata e realizzata, tale potenzialità. Che restituisca alla comunicazione la propria libertà e fluidità, secondo un’impostazione interdisciplinare tra psicologia e linguistica, psicologia e fonetica (quest’ultima comprendendo anche la respirazione).
Ma questa asserita interdisciplinarietà deve essere motivata e spiegata.

L’interdisciplinarietà come elemento base nella cura della balbuzie sarà oggetto dei miei prossimi articoli. Ma non solo l’interdisciplinarietà: anche il teatro, e il doppiaggio, e le sedute, e alcune registrazioni dalle sedute (fatta salva la privacy e il rispetto deontologico verso gli obblighi professionali dello psicologo), e molto altro. Ma soprattutto ci saranno approfondimenti proprio sul tema balbuzie: sulle sue caratteristiche, quindi, oltre che sulla terapia. Nei prossimi giorni, inoltre, racconterò, insieme a Michela Costa, attrice didatta, l’ultima esperienza fatta a proposito delle lezioni di teatro per la cura della balbuzie.

Per ora ci fermiamo. Prima, però, elenchiamo le possibili presunte cause della balbuzie. Da qui partirà il prossimo post.

  1. Le cause della balbuzie.

Va subito affermato, in proposito, che ne sappiamo davvero molto poco. Nessuna ipotesi sulla etiologia di questo disordine del linguaggio può essere dimostrata. E le ricerche, fin’ora, non sembrano aggiungere niente di nuovo. Sarò grato a chiunque vorrà fornirmi notizie diverse in proposito.

Le ipotesi generalmente avanzate sono tre:

a) cause organicistiche: eccitabilità neurovegetativa, ma anche traumi cerebrali, ecc.
b) cause psicogene: 1. Conflitti interiori acquisiti nel percorso di adattamento all’ambiente o nel rapporto con i genitori.
2. Sensazioni di paura o ansia di fronte alle prima difficoltà
3. Contrasti derivanti dagli effetti della comunicazione verbale, della comunicazione, cioè, dei propri contenuti; quindi, e per estensione, ansie derivanti dai rapporti interpersonali, vissuti come difficoltosi perché caratterizzati da ansie di accoglimento, ecc.
c) cause ereditarie.